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In quello che
oggi è il Passo di Mirabella, sorgeva, in loc. Grotte, l’antica Aeclanum,
che essendo stata una delle più importanti città sannite, e ritenuta per
un tempo capoluogo degli Irpini , conservò la sua rilevanza anche quando
divenne città romana.
La sorte della città sannita, già saccheggiata e semidistrutta nell’89
a.C. da Cornelio Silla, durante la Guerra Sociale (91-87 a.C.), fu
definitivamente segnata quando il dittatore romano lanciò una operazione
sistematica di distruzione e saccheggio del territorio degli Irpini, dopo
che quella tribù sannita, che aveva resistito più a lungo al dominio
definitivo dei Romani, svolse un ruolo preminente nell’ultimo episodio
della Guerra Civile tra sillani e mariani, la battaglia di Porta Collina
(I° novembre dell’82 a.C), quando Roma corse il rischio di essere invasa
dalle truppe mariane e dai loro alleati. Silla riuscì a sconfiggerli, sia
pure con difficoltà, e gli Irpini furono i più numerosi tra i prigionieri
che furono fatti trucidare subito dopo per suo ordine nel Campo di Marte.
I Romani ricostruirono Aeclanum magnificamente, come si può ancora capire
dai ruderi messi in luce dagli scavi. La città del resto era predestinata
a essere importante soprattutto da quando, nel 190 a.C, fu fatta
attraversare dalla Via Appia, data la sua posizione di antico valico
naturale degli Appennini in direzione della pianura pugliese già
utilizzato per la transumanza.
L’Aeclanum romana fu distrutta nel 662 d.C. dall’imperatore bizantino
Costante II durante la sua spedizione contro i Longobardi di Benevento.
Il punto di maggiore interesse storico del Parco è proprio il basolato
della Via Appia che l’attraversa in senso Ovest-Est. Ma sono naturalmente
da ammirare anche le bellissime Terme, l’Anfiteatro, ecc.
Per dare un’idea della grande rilevanza della città in epoca romana, basta
dire che le iscrizioni latine su lapidi trovate nel suo sito e immediati
dintorni (quelle debitamente registrate nel Corpus Insciptionum
Latinarum) sono ben 309.
Tra le epigrafi vi è anche quella incisa su una base di travertino priva
di statua, quasi sicuramente della dea Mephites, che recita in lingua osca:
“siviiù magiù mefit(ei)”, che significa “Sivia Magia a Mefite
(dedicò)”. Ma parlare del passato sannita di Aeclanum meriterebbe un
discorso a parte, perciò ci limiteremo alle iscrizioni latine, tra le
quale la più bella secondo noi è l’epigrafe che riporta l’elogio funebre
scritto per se stesso dal commediografo e poeta M. Pomponio Bassulo, morto
ad Aeclanum probabilmente suicida, che fece parte del gruppo di poeti che
a Roma furono propugnatori, ai tempi di Traiano, della“Commedia Nuova”,
riecheggiando le opere del greco Menandro (v. Plinio il Giovane, Epist.
VI, 21)
Del testo dell’epigrafe riportiamo soltanto i primi tre versi
dell’epitaffio (ma v. C.I.L., Lipsia, 1883, vol IX, n. 1164, rep. in
cryptis Aeclanensibus, extat Grottaminardae):
“NE – MORE – PECORIS – OTIO – TRANSFVNGERE(R)
MENANDRI – PAVCAS – VORTI – SCITAS – FABVLAS
ET – IPSVS – ETIAM – SEDVLO – FINXI – NOVAS…”
Diamo qui la nostra traduzione dell’epitaffio di Pomponio Bassulo,
ricostruendo per quanto possibile le parti mutili:
“Per non consumarmi nell’ozio
come fa il gregge, alcune raffinate favole di Menandro
ho tradotto nella nostra lingua
diligentemente;
e io stesso ne ho composte
(come che esse siano) di nuove,
affidandole alle carte da lungo tempo.
Ma tormentato da preoccupazioni e ansie nell’anima,
ed anche nel corpo da infiniti dolori,
gravissimi gli uni e le altre,
ho acquistato la morte agognata;
e lei, conforme alla sua natura,
mi dà ora ogni conforto.
Incidete queste mie parole sul sepolcro
come ammonimento ai posteri:
perché non si tengano aggrappati
tenacemente agli scogli della vita,
quando c’è pronto, per coloro che la vita
sospinge fuori, il porto
in cui troveremo tutti
una quiete per sempre duratura.”
Malinconici e tristi questi versi che però si chiudono così:
“SET - IAM – VALETE – DONEC – VI(VERE – EXPED)IT”, cioè:
“Ma intanto, finché la vita è propizia, state sani.”
Era il I° sec. d.C. e di cristiani in Irpinia probabilmente non ce n’erano
ancora.
(Sez. n. )
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