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Quasi all’inizio
della valle del nostro eternamente secco Miscano, sulla sua riva
sinistra d’alta quota, sorge su un giogo del monte Rovitello, di quasi
mille metri, Greci. Leggendo da sinistra a destra il nostro titolo, i
due nomi del paese esprimono quasi in emblema nobiliare il suo sviluppo
storico. Greci venne fondata nel 535 d. C., dal generale bizantino
Belisario, come presidio militare di soldati di lingua greca durante le
guerre gotiche-bizantine all’inizio del VI sec.; successivamente, servì,
sempre alle truppe imperiali d’Oriente, nelle ultime loro resistenze
contro l’espansione del ducato longobardo di Benevento, alla fine del VI
e all’inizio del VII. Venne abbandonata come presidio fortificato nel
968, quando fu distrutta da un’incursione saracena contro i territori
longobardi beneventani.
Sui suoi ruderi, dopo quasi cinque secoli, sorse la comunità che
soltanto ufficialmente conserva il suo antico toponimo di Greci, ma che
su un migliore fondamento storico ed etnografico sarebbe meglio
denominare con il termine albanese di “Katundi” ( il mio villaggio). Del
resto, così chiamano affettuosamente Greci i suoi attuali abitanti.
Katundi fu infatti ricostruita interamente quando alcune famiglie di
guerrieri albanesi ottennero in feudo il paese e il territorio
circonvicino dal re di Napoli Ferdinando I d’Aragona, per riconoscenza
di quel sovrano verso Giorgio Castriota - Scandeberg che salvò con i
suoi cavalieri dalla rotta le truppe reali napoletane nella battaglia di
Orsara di Puglia contro gli angioini, nel 1461. Agli inizi del secolo
successivo, la comunità d’origine si infoltì notevolmente con l’arrivo
di circa sessanta famiglie di connazionali da Castelluccio dei Sauri,
della vicina piana pugliese.
Nel corso del tempo, Greci-Katundi ha continuato sino ai tempi moderni
recenti il suo compito di paese fortificato, nelle varie vicende di
invasioni provenienti dalla pianura pugliese, in un sistema difensivo
territoriale che abbraccia altri comuni, abitati da gente di tradizione
militare di origine dalmata, francona, slava, ecc., dislocati sugli
ultimi monti dauni e nei valichi aperti dai fiumi locali. Greci in
particolare è a guardia del passo del Cervaro sul quale strapiomba il
suo ripido crinale del Breggo.
Katundi oggi.
La nostra prima costatazione sul paese attuale ha una coloritura di
mestizia, perché la sua popolazione sta diventando sempre più scarsa a
causa della forte emigrazione e l’invecchiamento dei residenti. Le
conseguenze sono uno spopolamento, che l’estrema cura con cui è
mantenuto il centro storico, magnificamente restaurato, nasconde; anzi,
arricchisce di echi evocatori dei tempi gloriosi del passato. Per cui,
percorrendo le sue strette vie, tutte lastricate con pietra di lava e a
gradoni con motivi a mosaico, e dai portali e riquadri di finestre, i
pianerottoli, i ballatoi e i gradini esterni delle facciate in pietra
scolpita di Casalbore, le facciate intonacate di fresco, non ci si rende
subito conto che la popolazione stabilmente residente si è ridotta negli
ultimi tempi a poche famiglie. Questo però è evidente a chi la visita
spesso; cosa che dà un senso di sconforto perché prova che il paese è
abitato totalmente soltanto in occasione del ritorno provvisorio degli
emigrati durante il periodo estivo.
Un ricordo personale recente. Quando, nel centro deserto del mezzogiorno
un topo mi era venuto tra i piedi e mi guardava, avevo dato per scontato
che lui e i suoi simili si fossero disabituati alla presenza umana, pur
se in un ambiente così ben tenuto dall’uomo. Era invece soltanto una
vittima della derattizzazione comunale al quale espressi la mia
compassione inter-specie fotografandolo.
Delle tradizioni del Paese d’origine, Katundi mantiene, oltre che una
qualità di vita diversa rispetto a quella dei paesi circonvicini
(migliore, secondo me), la lingua, la religiosità e un rito tra il sacro
e il profano in cui viene rivissuto il dramma del martirio di San
Bartolomeo Apostolo.
Da alcuni anni conosco l’insegnante delle elementari Maria Natalina
Poppa, che svolge un po’ il ruolo di guardiana spirituale della cultura
albanese a Greci. Mi regalò un anno un quaderno stampato in cui lei e i
suoi alunni avevano raccolto modi di dire, riti matrimoniali,
filastrocche, canti e proverbi nella varietà albanese del ceppo tosco
preservatesi sino ai nostri giorni, ma che purtroppo parlano
abitualmente soltanto gli anziani.
La religiosità grecese è centrata sulla devozione alla Madonna del
Caroseno e a San Bartolomeo Apostolo. L’immagine della Madonna rientra
in quel gruppo di simulacri sacri che in varie località italiane
trovarono rifugio per sottrarle all’invasione turca dei Balcani e della
Grecia. Ma verso questa madonna la devozione paesana è molto forte, come
testimonia il nome che significa più o meno “Madonna di là dal Mare
Adriatico” in ricordo della patria lontana.
Il dramma sacro di San Bartolomeo viene diviso. durante il giorno
festivo del santo, il 25 agosto, in due parti. Una svolgentesi la
mattina e un’altra la sera su un palcoscenico eretto sulla piazza
principale. Secondo me, la recitazione del mattino è la parte più antica
e autentica della tradizione, poiché consiste in un inseguimento a
cavallo dell’attore che interpreta il santo giù per il ripidissimo
sentiero del Rovitello e attraverso le viuzze cittadine, cosa che
evidentemente si riallaccia alle tradizioni guerresche dei padri che i
giovani hanno continuato a praticare in un contesto soltanto a metà
devozionale-religioso. La sera, invece, il dramma, diventa una
recitazione teatrale vera e propria di un testo scritto dall’abate Luigi
Lauda (1824-1892), nella seconda metà dell’Ottocento.
In base a un’informazione per la quale non abbiamo trovato riscontri in
documenti scritti, i cavalieri albanesi gareggiavano in passato anche
giù per il crinale ripidissimo che dall’attuale parco pubblico del
Breggo, scende sino alla gola del fiume Cervaro, presso la stazione
ferroviaria di Savignano - Greci. Settembre 2009 M.S.
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